2 marzo 2018 – UDIENZA RINVIATA L’aula vuota per gelicidio. L’udienza è rinviata.
Non ci sono ombre. La luce è spenta. L’unica notizia è l’ordinanza della Corte sulla richiesta di arresti domiciliari che Matteo Cagnoni ha pietito l’udienza scorsa. Richiesta respinta: nulla è cambiato dal precedente diniego di due mesi fa.
A casa mi aggrappo alle riflessioni, ascolto la radio, leggo. Cambio canale. Il dibattito è lo stesso. Il femminicidio di Latina ha portato sui media psicologi, psichiatri, sociologi, pediatri, matrimonialisti, tuttologi. Ormai il termine femminicidio è d’uso comune, le statistiche di violenze e molestie sul lavoro sono buttate lì come cose risapute. Lo strapotere degli uomini è riconosciuto e denunciato. Si parla di fragilità degli uomini. Affiora qualche lacrima maschile. Qualcuno presenta un libro sulla crisi del patriarcato. I dibattiti si mescolano a rubriche raccapriccianti e diseducative di violenza sulle donne, che invitano all’emulazione e stimolano il voyeurismo. Cambio canale di fronte agli sfoghi individuali, ai pianti forzati nei talk show. La frase ‘tragedia annunciata’ è già diventata vecchia. Tutto d’un tratto, in tv, pare che uomini e donne si siano svegliati e vedano la realtà maschilista in ogni dove. Perché allora con tutto questo aumento di consapevolezza, nulla cambia? Tante donne sono complici del patriarcato, dice qualcuna, anche loro ne sono intrise. Sono loro a trasmetterne i meccanismi a figli e figlie: il maschio sarà aggressivo, la femmina remissiva. Applausi in studio. Allora se sappiamo già tutto, perché ogni due giorni c’è un femminicidio? Ormai si sa che non esiste il raptus. Nella maggior parte dei casi, tutto pare iniziare con un desiderio di separazione da parte della donna. Mi oppongo, Vostro Onore: tutto inizia ben prima. Che tipo di consapevolezza nuova portano i media, visto che c’è ancora chi scrive uxoricidio, al posto di femminicidio? Tutto è affrontato come spettacolo, non con un’ottica di genere. Perché nei dibattiti televisivi, le femministe e il pensiero delle donne hanno ancora così poco spazio? Potrebbero aggiungere spessore a temi spesso semplificati. Il femminicidio dovrebbe essere aggredito in maniera integrata, in tutti gli aspetti della vita quotidiana: la scuola, il linguaggio, il lavoro, la salute, altrimenti, ragionando per settori separati, un pezzo alla volta, si risolve poco o niente. Non basta l’assistenzialismo, serve una trasformazione radicale della cultura. Dalla radio mi distrae la voce affannata di un ragazzino. Ha tredici anni è disperato: suo padre massacra di botte sua madre, che lei non vuole denunciare perché altrimenti lui la ammazza. Suo padre è geloso, possessivo. La mamma non vuol incontrare l’assistente sociale perché ha paura che le portino via il figlio. Al pronto soccorso hanno fatto intervenire i carabinieri, ma la mamma ha detto che se denunciava suo marito, lui avrebbe perso il lavoro. Allontanamento del padre impossibile: devono ancora finire di pagare il mutuo della casa. La separazione legale è fra un mese. Ho paura che la uccida. Che faccio? chiede il ragazzino al telefono. Che fare? mi chiedo io. Non domani, nel futuro, nella filosofia, ma oggi, adesso. Quale risposta ho? Potrei dirgli di confidarsi con una sua insegnante. Magari nella sua scuola esiste uno sportello per l’ascosto degli studenti. Mi informo: poche scuole hanno questo tipo di sportello, e per ottenere dei colloqui con lo psicologo, ammesso che ci sia, la scuola deve avere il permesso da entrambi i genitori. Intanto nei salotti tv sembrano tutti trasversalmente concordi. E’ una questione culturale. Cambiamo le mentalità. L’educazione. Bisogna partire dalla scuola. Qualcuno suggerisce di introdurre l’insegnamento dell’educazione ai sentimenti nelle scuole. Una donna azzarda, l’educazione al genere. Si portano esempi di incontri nelle scuole con esperti, studenti, insegnanti. Di corsi per imparare a difendersi nel web. Qualcuno si lamenta che i presidi non vogliono neppure sentir nominare la parola ‘genere’ nel loro istituto. Senza contare l’inerzia di tanti di loro supini alle pressioni di associazioni di genitori che ritengono l’educazione dei figli un esclusivo compito della famiglia e minacciano denunce. Il ragazzino tredicenne è ancora al telefono, aspetta una risposta. Come posso dirgli che deve aspettare che cambi la cultura? Che è una questione politica. Potrei dirgli di fare denuncia. Ma non può: dai 10 ai 14 anni un ragazzino non può sporgere querela o denuncia, ci vuole anche la firma di uno dei genitori. Così è la legge. Cambiamo la legge? Facciamo un’altra nuova legge dopo il femminicidio di Latina? Era un carabiniere, ha ucciso la moglie con l’arma di ordinanza? Allora ci vuole una norma che stabilisca che gli appartenenti alle forze dell’ordine, che hanno dato segnali di problematiche psicologiche, devono lasciare l’arma in caserma prima di andare a casa. Tutti d’accordo. E se i segnali vengono ignorati? E se quel carabiniere disarmato avesse ammazzato con un bastone e uno spigolo di muro, come è stata uccisa Giulia? Potrei consigliare al ragazzino tredicenne di convincere, lui, sua madre, anche se non è giusto chiedere ad un ragazzino di farsi carico dei problemi dei suoi genitori. Potrebbe accompagnare sua madre in un centro antiviolenza. Troverebbe sicuramente ascolto, sostegno e soprattutto sarebbe creduta. Sarebbe un gran sollievo. Magari troverebbe la forza di fare una denuncia. Se i maltrattamenti sono reiterati nel tempo, se ci sono referti medici, si può chiedere un provvedimento restrittivo per allontanare da sé e dalla casa il marito violento. E dal lavoro? E dal supermercato? E se lui non rispetta il provvedimento? E se, come spesso accade, la donna cede, ritira la denuncia? Perché? Già, noi donne diamo sempre un’altra possibilità, crediamo ai cambiamenti, ci fidiamo. Crediamo nei pentimenti. Siamo tante Giulia e non ce ne accorgiamo. Il centro antiviolenza potrebbe trovare una sistemazione per mamma e figlio una sistemazione in una casa rifugio. Per fuggire a una ‘tragedia annunciata’. Ma a quale prezzo? Una storia vera: il marito è stato condannato in primo grado a sette anni e tre mesi di carcere per continue violenze e maltrattamenti gravi in famiglia; ha fatto ricorso in appello; ottenuto la libertà vigilata con obbligo di firma. Lei da due anni vive in una casa rifugio con i figli; ha perso il lavoro, vive lontana dalla sua città. Lui ha mantenuto il lavoro, vive in casa sua, gira liberamente. Chi lo fermerebbe se volesse uccidere sua moglie? Magari anche i figli, visto che sono di sua proprietà? A proposito di centri antiviolenza, a che punto siamo? E’ vero c’è un piano nazionale, si presentano progetti, ma poi mancano i finanziamenti, ci sono solo sostentamenti, vale a dire appartamenti, cibi, indumenti. Nella realtà i centri antiviolenza rischiano di chiudere. Intanto il ragazzino tredicenne aspetta una risposta. Concreta. Mi è venuta un’idea. A Ravenna, anche se pochissimi lo sanno, esiste un centro per gli uomini maltrattanti. Gli uomini difficilmente ammettono di non riuscire a dominare le proprie pulsioni. Mi è stato raccontato di una donna maltrattata da vent’anni dal marito non fisicamente, ma vessata quotidianamente con urla e minacce. La signora ha ottenuto l’allontanamento del marito, il quale, messo alle strette, ha accettato la proposta di frequentare regolarmente un centro per uomini maltrattanti. Dopo otto mesi, dice la signora, il marito si è calmato e ora non urla più. La signora ha trovato evidentemente una strategia vincente. Cosa non facile. Giulia Ballestri non l’ha trovata la strategia vincente. Perché da sole è difficile trovarla. Eppoi, francamente, non riesco ad immaginare l’imputato Cagnoni rivolgersi ad un centro per uomini maltrattanti. Lo sento piuttosto dire: Un Cagnoni non uccide, fa giustizia. E il ragazzino tredicenne al telefono? Nel frattempo si è stancato di aspettare e ha interrotto la comunicazione.