9 marzo 2018 – DICIASSETTESIMA UDIENZA PROCESSO CONTRO MATTEO CAGNONI PER IL FEMMINICIDIO DI GIULIA BALLESTRI Verità. E’ la parola odierna. Vien detta in ogni udienza, è vero, ma oggi è un’ombra. Non tutti ascoltano bene le avvertenze che il Presidente legge ad ogni testimone prima dell’esame.
Chi non dice la verità, chi rende falsa testimonianza rischia da due a sei anni di carcere. Siamo in un processo penale. In una corte d’assise. La verità è d’obbligo. La scappatoia dei “non ricordo” non sempre funziona e si rischia di essere accusati di reticenza.
Quale verità? Di verità ce n’è una sola? Dipende.
La figura del reticente pentito ci mancava. Ovviamente è una donna. La reticenza maschile, affiorata qua e là durante il processo, appare invece più tollerata, talvolta ridicolizzata, ma niente più, anche perché, ciò che gli amici dell’imputato avrebbero potuto rispondere oltre a “non so” e “non ricordo”, non era poi così probante.
La reticente pentita, uscita dall’ombra di oggi, invece ha delle cose probanti da dire. E’ pentita di aver detto poche verità e qualche bugia. Il 16 marzo tornerà sul banco dei testimoni, Adriana Ricci, custode della Villa di Via Genocchi e amica di Vanna Costa, madre dell’imputato.
In aula, un mese e mezzo fa, il 2 febbraio, alla Ricci venne fatta ascoltare l’intercettazione di una telefonata fra lei e Vanna Costa. Il colloquio verteva sullo sfogo di Vanna: “Matteo l’ha fatta grossa, ma ha vissuto un trauma così grosso per la distruzione della sua famiglia che non ci ha visto più”. La Ricci dice al Presidente della Corte che la voce non è la sua. Così non va. La procura apre un fascicolo contro la Ricci per reticenza e falsa testimonianza. La donna si rivolge ad un avvocato. La signora Vanna, saputo dell’incriminazione dell’amica, il 16 febbraio, le telefona per rassicurarla: per difendersi le mette a disposizione un avvocato di famiglia. Complimenti alla signora Vanna! Una donna molto lucida e pronta, nonostante da un anno e mezzo sia affetta da deficit cognitivi, Alzheimer. Deve essere sfuggita ai controlli maritali che la obbligano, come si sa, all’imperativo: “Stai zitta”. Dopo la telefonata, Adriana avverte il proprio avvocato, che passa la segnalazione alla polizia e alla procura. Adriana Ricci è stata richiamata in aula per dire la sua nuova verità. Quella vera? Riconoscerà la propria voce? Di cosa si è pentita? Vedremo.
La verità scientifica invece è una verità vera. In questo caso, inoppugnabile. Grazie alle nuovissime tecnologie a disposizione.
Oggi è il giorno della formula di compatibilità: LR 3,37 per dieci alla ventiduesima. E’ un parametro che stabilisce quante possibilità ha una traccia di sangue di appartenere ad una data persona. Dieci alla ventiduesima è più che probabile, è una certezza, da notare che basterebbe un dieci alla sesta per la compatibilità.
Non me ne vogliate per questa divagazione forse troppo tecnica, ma a volte ci vuol pazienza per arrivare alla verità vera.
LR 3,37 per dieci alla ventiduesima sono i risultati di compatibilità col sangue di Giulia sull’impronta del palmo dell’imputato sul muro e sul frigorifero, sulle poltroncine verdi, sul cuscino verde, sulla torcia trovata nella sua auto, sulla maniglia del portabagagli, sulla scarpa Timberland. Ho lasciato per ultimo il bastone perché oltre alla formula di cui sopra è stato trovato il cromosoma Y (maschile) compatibile con la linea paterna della famiglia Cagnoni. Per ultimissimo ho lasciato un paio di jeans. Sono dell’imputato. Sono stati sequestrati nella villa di Firenze. Tracce del sangue di Giulia. Schizzi. In tasca ci sono delle monetine e un frammento. Frammento di cosa? E’ molto scuro. Una scheggia di legno. Proviene dal bastone E’ una scheggia colorata di sangue seccato. Di chi? Compatibilità LR 3,37 per dieci alla ventiduesima. E’ di Giulia.
Com’è finito nella tasca dei jeans dell’imputato un frammento del bastone usato per tramortire Giulia?
Un caso? Un ricordo? Un souvenir? Ce lo dirà l’imputato?
E cosa ci facevano quei jeans insanguinati a Firenze visto che non sono gli stessi pantaloni che aveva quella mattina a colazione? Ma quante volte si è cambiato nel giro di qualche ora? Perché non ha buttato via anche quei jeans? Si dice che l’assassino torni sempre due volte sul luogo del delitto, che sia successo così, ammesso che l’imputato sia colpevole?
Quale verità dirà alla PM Cristina D’Aniello e al Presidente Corrado Schiaretti, il prossimo 23 marzo, data in cui è previsto l’esame dell’imputato? In effetti, la PM aveva chiesto di iniziare l’esame il prossimo venerdì, il 16 marzo, ma l’avvocato difensore Trombini ha ottenuto di posticiparlo di una settimana, perché “ci sono tante cose da preparare”.
La parola “preparare”, mi punge vaghezza. Ricordo che l’imputato si è sempre dichiarato innocente. Quindi, che bisogno ha di prepararsi? La verità non si prepara, la verità si dice. Può essere accusato di reticenza o falsa testimonianza? Non so.
Chiedo ad una amica avvocata.
L’esame di un imputato durante tutto il processo fa parte del diritto costituzione di difesa. L’imputato si presume innocente fino all’ultimo grado di giudizio. La pubblica accusa deve dimostrare tutti gli elementi che lo incriminano al di là di ogni ragionevole dubbio. L’imputato ha diritto di discolparsi, senza obbligo di verità.
“Nemo tenetur se detegere”, nessuno può essere obbligato a dichiarare la propria responsabilità penale. “L’imputato non solo gode della facoltà di non rispondere ma non ha nemmeno l’obbligo di dire la verità”.
Rifletto sulle garanzie per il diritto costituzionale alla difesa di tutti i cittadini e m’inchino contenta che ci sia il diritto alla difesa. Però la parola “preparare” non mi va giù. Forse si può preparare la veridicità di una verità non vera. Si prepari comunque esaminando Cagnoni. I suoi coaches il Professore Padre e l’avvocato, Giovanni Trombini, sono in gamba, ma lei deve studiare. Chissà cosa studia, su quali testi, su quali parole insisterà? E’ un esame vero quello che lo aspetta. Da quando lo si vede in aula, da ottobre, l’imputato scrive. Scrive, non pare prenda appunti. Si dice che ambisca a diventare scrittore. Certo il suo nome sarebbe in copertina. Titolo? “Il Vangelo secondo Matteo”.
PS. Prima di finire il mio articolo ho passato in rassegna la stampa, con l’occhio attento a termini sessisti.
Eccolo là. Un titolo niente male! Sento puzza di moralismo.
E’ in un quotidiano locale on line del 10 marzo: “Sangue di Giulia sui jeans di Matteo, dna di un altro uomo sotto le unghie di lei”. In questo modo si insinua il sospetto che Giulia avesse un altro amante, perché sotto le sue unghie non sono state trovate tracce né del DNA di Cagnoni, né del nuovo compagno di Giulia.
Si vuol sottintendere che Giulia avesse due amanti, e, perché no, tre? Ergo fosse colpevole di alto tradimento? Un’attenuante per chi l’ha uccisa per lavare il disonore? Ho pensato fosse colpa del titolista. Spesso accade che il contenuto del titolo non rispecchi quello dell’articolo, il titolo è un modo per attirare l’attenzione del lettore. In questo caso no, il testo è conforme. Per di più è stata omessa un’importante precisazione. Sotto alcune unghie delle mani di Giulia è presente un DNA appartenente a un maschio. Di che età non è possibile saperlo. Ricostruendo le azioni di quel venerdì mattina, è probabile che Giulia abbia fatto una doccia e aiutato i figli ad alzarsi, vestirsi, far colazione. Sappiamo che assieme al marito li ha accompagnati a scuola. Certamente Giulia li avrà baciati, accarezzati. “Dopo una carezza, un grattino …, potrebbe essere rimasto del materiale sotto le unghie?”, chiede la PM alla dirigente dell’Ufficio di genetica della polizia scientifica di Roma, Alessandra La Rosa, che così risponde: “Sì, è una possibilità”.
Certo un bambino è un maschio, ma non è ‘un altro uomo ‘, che suona come un amante.
Invito il collega, maschio, a scrivere i suoi articoli con un linguaggio privo di stereotipi sessisti. Chi se ne importa chi amasse Giulia quando è stata uccisa. La sola verità che conta è che Giulia non voleva più sottostare ad un uomo in particolare: suo marito e perciò ha pagato con la sua stessa vita.