OMBRE DI UN PROCESSO / 33

 

22 giugno 2018 – TRENTESIMA UDIENZA – PROCESSO CONTRO MATTEO CAGNONI PER IL FEMMINICIDIO DI GIULIA BALLESTRI

La parola di oggi è Ergastolo.
E’ nella sentenza delle donne e degli uomini della Corte D’assise di Ravenna: ergastolo per Matteo Cagnoni per il ‘femminicidio’ di Giulia Ballestri. Femminicidio l’ho aggiunto io, la parola usata nel dispositivo è ‘omicidio volontario pluriaggravato’.
Quelle donne e quegli uomini hanno creduto alle parole di Giulia, alle confidenze che aveva fatto a chi le voleva bene, e che è venuto a testimoniare in aula. Suo marito era violento, possessivo, manipolatore, persecutore.
Giulia è stata la Testimone Principale di questo processo.
La sua storia è un tesoro che noi donne, e spero tanti uomini, porteremo nella vita quotidiana, come nuova consapevolezza di quanto il femminicidio sia tutt’altro che un fenomeno occasionale, ma un modo per definire il movente dell’omicidio di una donna, quando questa viene uccisa da un marito o un ex perché vuole vivere una vita diversa e uscire da una famiglia autoritaria e patriarcale che la opprime fino a toglierle la voglia di vivere.
Le donne e gli uomini della Corte non hanno creduto alle parole di Matteo Cagnoni, nella sua ultima presa di parola in aula.
Qualcosa, o tutto, non li ha convinti nella sua dichiarazione sul suo rapporto con Giulia.
Taci e sii bella, non gli appartiene, dice.
Recita poi: quando Giulia venne da me non ne avevo percepito la bellezza, ma ho visto in lei qualcosa di speciale; di lei mi ha colpito la semplicità, la simpatia, una capacità di battuta rapida, quasi maschile; in poco tempo mi sono reso conto che mi divertivo con lei come con un amico; Giulia era il mio baricentro esistenziale; quando non ero con lei, il mondo si ingrigiva; uscire da solo senza di lei, per me era sprecare una serata.

Quante cose voleva da quella donna? In quanti modi l’ha usata? Di quanto peso l’ha caricata? Si divertiva con lei come fosse un amico. Non un’amica. Dalla battuta rapida, quasi maschile. Quasi.
Poi ha continuato Cagnoni, sempre leggendo a testa bassa: Ho tre figli che hanno un trauma spaventoso addosso.
Questo no. Non può permettersi di dirlo. Non si può ascoltare.
Le donne e gli uomini della Corte hanno scritto nella sentenza: dichiara Cagnoni Matteo in stato di interdizione legale, nonché sospeso dall’esercizio della potestà di genitore per la durata della pena.
Ha perso la potestà sui figli.
La Famiglia, quella che ha affida al figlio maschio la prosecuzione del sangue, della stirpe, del cognome, è un ritratto da rifare.
Mi hai disonorato, diceva il marito alla moglie. Ora lui ha disonorato Famiglia, Padre, Figli.
Ma non è questione di Onore, è questione di Potere.
Quel Potere che, pur disonorato, saprà evitargli di finire a convivere in compagnie ben peggiori di quella ‘gente poco evoluta’ del carcere di Ravenna.
Il Potere della Famiglia ha solide radici, segrete logge.
Le cose si pacificano pagando non scappando, disse il Patriarca al Figlio.
La vox populi intanto mormora: ben gli sta, tre ergastoli gli dovevano dare, uno per ogni figlio; dovrebbe ringraziare, in America la sedia elettrica gli davano; in miniera a lavorare lo manderei; la catena al piede con la palla di piombo.
Il giustizialismo s’impenna nei commenti di chi, prima della sentenza, chiedeva: l’ergastolo gli devono dare e buttare via la chiave. Trova sempre un oltre stratosferico da immaginare.
Non credo sia la soluzione. Queste parole sono sterili, vuote, non servono per andare oltre. Il giustizialismo si autoalimento e non produce alcun cambiamento.
Il caso è chiuso, per ora.
Non sappiamo se Matteo Cagnoni è davvero destinato a scontare la pena dell’ergastolo poiché ci sono ancora 2 gradi di giudizio da affrontare. Tuttavia la sentenza di primo grado è stata letta ad alta voce dal Presidente della Corte Corrado Schiaretti, registrata, trasmessa dai telegiornali della sera di venerdì 22 giugno e ascoltata da tutto il paese. Giustizia è fatta, in nome del popolo italiano. Non di Matteo Cagnoni.
Cosa fare per andare oltre? Oltre la sentenza che riguarda una persona? Oltre l’indignazione per il femmincidio di Giulia? Oltre la pietas di una lacrima?
A cosa è servito questo processo?
Serve una camminata in riva al mare.
Ho ancora ai piedi le Scarpe Rosse che avevo per assistere alla sentenza. Tante donne e qualche uomo le hanno indossate. Rosso. Nastri rossi. Lacci. Fiocchi. L’avvocato Scudellari, è vero non le ha potute indossare per rispetto della Corte, ma con orgoglio ha mostrato il cinturino del suo orologio..
Scarpe Rosse e una sedia vuota. Un posto riservato per la Testimone principale di questo processo. Giulia Ballestri.
Scarpe Rosse ad ascoltare.
Sono le Scarpe Rosse delle Ombre delle donne uccise da un marito o dall’ex, per privarle della libertà. Ombre che non potranno più indossare scarpe. Abbiamo fatto, noi tutte, un fatto politico, un flash mob partendo dallo stesso sentire. Di donne.
Il mare è in burrasca. Inquieto.
Mi slaccio le scarpe e le poso sulla battigia.
Le onde danno voce alle Ombre.
La sentenza ha ridato dignità ad una di noi.
Giustizia è fatta per Giulia, i suoi bambini e la sua famiglia.
Restate umane. Umani. L’ergastolo, per quanto giusto, rimane una sconfitta per tutte e tutti.
Leggeremo le motivazioni che hanno portato la Corte alla condanna. Fra novanta giorni.
Sapremo perché Giulia Ballestri è stata uccisa, secondo la verità processuale. Dalle motivazioni sapremo se il processo potrà essere considerato un seme verso un cambiando, se farà giurisprudenza, se sarà un punto di riferimento per i futuri processi per femminicidio.
E intanto?
Rimetto le scarpe.
Ciò che è successo durante il processo è già un fatto importante contro il femminicidio.
Un processo per femminicidio dove la Pubblica Accusa è stata rappresentata da una donna, Cristina D’Aniello. Donna la Cancelliera, Susi Randi.
Dove sono state accolte le parti civili: Comune, Udi, Linea Rosa e Associazione dalle parte dei minori.

Dove le donne del pubblico hanno partecipato come se ognuna chiedesse giustizia anche per se stessa. Per una famiglia patriarcale che ha represso madri, figlie, mogli, amiche. Una famiglia patriarcale dove il Potere del Pater è violento fino ad uccidere.
Questo Processo ci ha fatto crescere, prendere consapevolezza che bisogna cambiare la cultura che sta alla base della relazione uomo donna.
Lo so che la Cultura si insegna a scuola, ma la cultura si fa a partire dalla famiglia, e prima ancora dall’esempio, la cultura si fa anche nelle aule di giustizia.
Un messaggio di Morena: ho letto le Ombre di un processo udienza dopo udienza e quando avranno l’età giusta, leggerò questi tuoi articoli alle mie due figlie per far sì che abbiano gli strumenti per riconoscere certi mostri che prima imbrigliano la libertà delle donne e poi le uccidono brutalmente.
Sappiamo che non basta consolare le donne maltrattate. Occorre aiutarle a rendersi conto che di fronte alla violenza in famiglia si deve chiedere aiuto, pretendere ascolto e protezione.
Da dove cominciare?
Prestiamo attenzione alle parole e impariamo a riconoscere quelle che alimentano una cultura discriminatoria e sessista, che rafforzano gli stereotipi del maschile e del femminile.
Un cronista locale, descrivendo la tensione dell’attesa della sentenza scrive che l’avvocato Trombini, un uomo, tamburella con le dita sul tavolo, mentre IL PM, una donna, continua ad aggiustarsi i capelli e IL CANCELLIERE, un’altra donna, annuncia l’entrata della Corte.
Allora Alberto, lo fai apposta? Speriamo di sì.
Le Ombre di un Processo continuano ad ascoltare.

L’articolo è di Carla Baroncelli (giornalista e scrittrice).