Noi siamo la cura

È nata a Roma alcuni mesi fa, sull’onda di una pandemia lacerante che molti sostenevano fosse superata ma che ha dato luogo a una seconda ondata forse ancora più letale, l’Assemblea della Magnolia. Fortemente voluta dalla Casa internazionale delle donne e sostenuta da tantissime associazioni, gruppi e individue, l’Assemblea è riuscita a produrre, grazie a una fitta rete di relazioni e discussioni, un documento politico (che alleghiamo) che individua i nodi che il Covid-19 ha fatto prepotentemente emergere e propone soluzioni di genere attente ai diritti e alle libertà delle donne.

“Non c’è più tempo. Per il pianeta, per il nostro mondo, per le nostre vite. Noi siamo la cura”: questo il titolo del documento che sottolinea il baratro nel quale siamo piombati tutte e tutti e chiarisce senza infingimenti che il cambiamento dovrà obbligatoriamente essere radicale e femminista o non sarà, perché l’epidemia Covid-19 non va affrontata “come una ‘guerra da vincere’ e per tornare alla ‘normalità’, ma come occasione per cambiare in radice noi, donne e uomini, e il mondo in cui viviamo”.

La salute, la scuola, il lavoro, i diritti umani, l’economia, l’ambiente, la pace, il contrasto alla violenza di genere devono essere declinati attraverso il fitto tessuto della cura che è “qualità dei corpi e delle menti”.

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Non c’è più tempo. Per il pianeta, per il nostro mondo, per le nostre vite.

Noi siamo la cura.

Siamo le donne dell’Assemblea della Magnolia che si incontrano dal mese di luglio su iniziativa della Casa Internazionale delle Donne di Roma. Una pluralità di donne, tantissime e diverse, con le loro competenze e soggettività, da sempre impegnate per la libertà e l’autonomia delle donne e a praticare “la cura del vivere”, nelle esperienze personali e sociali, e nella politica.

È in ragione di questa forza che vogliamo prendere parola e contribuire alle scelte da fare oggi, per affrontare l’epidemia Covid-19, non come una “guerra da vincere” e per tornare alla “normalità”, ma come occasione per cambiare in radice noi, donne e uomini, ed il mondo in cui viviamo.  Costruendo qui e ora un futuro a misura delle necessità e all’altezza dei nostri desideri.

Con la pandemia il pianeta ha fatto sentire la sua voce.

Per la prima volta milioni e milioni di donne e di uomini hanno contemporaneamente condiviso paure, angosce, dolore, isolamento, solitudine. È esplosa la fragilità dei corpi e delle nostre vite, l’interdipendenza delle relazioni, i bisogni della cura del vivere. Ma questa esperienza collettiva oggi non trova significato.

Continuano le inerzie delle vecchie idee, restano indiscussi i modelli che hanno dimostrato il fallimento, si ripetono stereotipi che accettano la divisione sessuale del lavoro come ordine naturale, lasciando le donne senza libertà.  Il Covid smentisce invece ogni continuismo, rimettendo al centro i bisogni della cura, dell’altro/a, di noi stesse, delle condizioni della vita, della natura e della democrazia, dichiarandoli definitivamente non compatibili con l’interesse di un’economia del profitto.

Il Covid si è manifestato infatti innanzitutto come crisi della cura, prima ancora che crisi sociale ed economica, persino sanitaria. La pandemia ci ha dimostrato quanto siano fondamentali quei grandi beni comuni come la scuola, la salute, la tutela dell’ambiente, la dignità del lavoro, i servizi sociali. Ha mostrato l’incapacità e la fragilità dei sistemi pubblici impoveriti dai tagli, drammaticamente insufficienti anche in tempi normali.

Come sarebbe stato diverso vivere questa pandemia se ci fosse stata una medicina di comunità, ospedali sicuri, personale sanitario e sociale presente in numero adeguato ed in modo costante, servizi per l’infanzia, scuole accoglienti e sicure, servizi di sostegno alle persone fragili.

Se la capacità di cura del paese fosse stata più forte, meno drammatico sarebbe stato l’impatto sui nostri ospedali, sui servizi di assistenza agli anziani, sui trasporti, sulla scuola e infine sulla nostra economia.

Se la violenza contro le donne fosse stata veramente considerata come un fenomeno strutturale e come una reale drammatica emergenza, aggravata e allo stesso tempo oscurata dalla pandemia, non sarebbe stato così alto il prezzo pagato dalle donne.Se avessimo avuto una rete adeguata di trasporti, servizi sociali forti e presenti, scuole ben tenute e classi non affollate, le conseguenze della pandemia sarebbero state più affrontabili e sostenibili.

Se il sistema dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori fosse stato più forte e più equo, oggi avremmo meno poveri, meno persone senza lavoro e senza prospettiva.

Se avessimo avuto politiche di apertura e inclusione verso tutti e tutte, nativi e migranti, se non avessimo pensato che la sicurezza fosse alzare muri e chiudere frontiere, se avessimo lavorato per costruire una società pienamente multiculturale e decoloniale, oggi vivremmo tutte e tutti in una condizione più ricca, civile ed umana.

Se non avessimo avuto un sistema di produzione agricola al servizio delle multinazionali, oggi potremmo controllare vecchi e nuovi spillover, costruire prospettive nuove di lavoro compatibile, difendere il territorio dall’abbandono.

Se non avessimo investito così tante risorse nella produzione e nella vendita di armi, se non avessimo scelto modelli di sicurezza militaristi a scapito della vera sicurezza umana, non avremmo sistemi sociali e di relazioni così indeboliti e fragili.

Le parole, cura come vulnerabilità e dipendenza ricorrono certo nel discorso pubblico sulla pandemia, ma spesso in modo riduttivo, o retorico. Come se riguardassero solo le terapie, sanitarie e sociali, della malattia del virus. E potessero essere messe da parte, quando la salute tornerà ad essere la condizione normale di vita. Magari investendo più risorse ed energie, per garantirla, senza spingersi oltre un moderato riassetto dell’organizzazione esistente. Senza cambiare le priorità, senza affrontare le cause di fondo sia della malattia che ha contagiato il mondo, sia delle altre malattie, altrettanto contagiose e profonde, che sono divenute manifeste con il diffondersi del virus, e con le difficoltà e incapacità, sempre più evidenti e pericolose, a contrastarne la diffusione e gli effetti.

Se è vero che il virus è il prodotto, non unico, non isolato, dell’Antropocene, ovvero del modo in cui gli uomini – sì il sesso maschile – hanno dominato sul pianeta, devastandolo, ed hanno fatto del potere e del dominio il principio cardine delle vicende della propria specie, è altresì vero che da sempre le donne hanno condiviso l’esperienza della cura della vita.

Un’esperienza in cui si sono intrecciati al destino naturale e al ruolo obbligato saperi e competenze. Abbiamo appreso, noi donne, ad avvalerci di questo patrimonio, rompendo la gabbia di un’identità femminile che tutte ci accomunerebbe, in ragione di una stessa condizione. La cura è il guadagno più prezioso che abbiamo tratto dal nostro lavoro politico. Ed è la ricchezza che vogliamo investire per un futuro diverso per le donne, per l’umanità tutta e per il pianeta.

Per questo affermiamo che le donne sono le protagoniste necessarie e centrali della politica. A partire dal Piano di ripresa e resilienza. E’ positivo che nel Piano non vi sia un capitolo specifico di politiche per le donne. Ma non basta la trasversalità; è lo stesso concetto di “politiche di genere” che ci sta stretto. Tutte le politiche devono essere “di genere”, pensate, costruite e finanziate sapendo che nel mondo e nella società esistono donne e uomini e tante sono le differenze. Tutte le politiche, tutte le scelte vanno monitorate, valutate per il loro impatto sulle differenze, prima, durante e dopo la loro attuazione.

Non vi è dubbio che le donne abbiano pagato il prezzo più alto alla pandemia, e che le disuguaglianze tra i sessi devono essere una priorità del Piano. Ma non siamo più il “secondo sesso bisognoso di tutele”; non siamo solo discriminate, o peggio eternamente a rischio di essere respinte indietro.

Se il lavoro di cura femminile è penalizzato, sia quello gratuito e invisibile che ognuna di noi svolge, sia quello sociale, sfruttato, malpagato, deprivato di diritti, soprattutto se svolto da migranti; se il sistema economico, privato e pubblico mira ad appropriarsi della cura, negando qualità e riconoscimento a chi la pratica, noi non vogliamo ridurre la cura a una questione di migliore redistribuzione di compiti tra uomini e donne, né tra servizi sociali e famiglie.

La cura che mettiamo al centro della politica è qualità dei corpi e delle menti, delle differenti soggettività, del legame sociale e della interdipendenza. E’ cura dell’ambiente, dei territori urbani, dei beni comuni. E’ cura del linguaggio, della ricchezza del multiculturalismo, dei saperi, dell’educazione ed istruzione, dalla prima infanzia alla vecchiaia. E’ cura del lavoro, della sua dignità e della sua qualità. Nessuno sviluppo, nessuna crescita può essere costruita svalorizzando e deprezzando il lavoro.

Non possiamo più sopportare spese per gli armamenti o grandi opere inutili e devastanti.

Dobbiamo affrontare le nostre vere fragilità, altrimenti i provvedimenti di sostegno e aiuto che verranno presi rischiano di provocare effetti paradossali o di non riuscire ad essere efficaci.

Senza affrontare la questione dei contratti precari, la decontribuzione per i nuovi assunti rischia di incentivare il licenziamento di lavoratrici e lavoratori stabili, per assumere lavoratrici e lavoratori precari, che non godono più delle tutele precedenti al job act e che costano meno.

Senza affrontare la questione delle assunzione nella pubblica amministrazione e nei servizi pubblici, le misure di rafforzamento e di investimento nei servizi, possono tradursi in una ulteriore privatizzazione e esternalizzazione di funzioni pubbliche, con la conseguenza di un ulteriore impoverimento della PA, di una crescente precarietà dei lavoratori e delle lavoratrici dei servizi, di una mancanza di unitarietà, trasparenza e efficacia nell’azione dell’amministrazione, di una crescente incapacità di gestire le funzioni di prevenzione, di salute pubblica, di programmazione e di controllo.

Rilanciare la capacità di intervento pubblico a garanzia dei diritti fondamentali deve essere la priorità delle priorità. Quello che fino ad oggi è stato considerato residuale ed a cui sono state dedicate briciole di risorse da parte delle politiche economiche e sociali che si sono succedute, devono essere invece centrali nell’agenda politica e considerate motore dello sviluppo economico e sociale. Le risorse vanno accompagnate da profondi mutamenti nelle politiche, che superino le politiche di austerità non solo nella possibilità di indebitamento nell’emergenza, ma come ricostituzione di un sistema di tutele, diritti delle cittadine e dei cittadini e capacità di intervento e iniziativa delle istituzioni pubbliche.

Il cambio di paradigma deve essere radicale, da subito. E’ in gioco la vita e la convivenza di tutti e tutte noi. Per questo non intendiamo delegare a sedi ristrette tecnopolitiche le scelte da fare. Tantissime donne si stanno misurando in queste settimane sulla pandemia e sulle sue conseguenze. Le donne sanno mettere a confronto le loro differenze, sanno costruire condivisione e consenso. Proprio questa nostra capacità e volontà vogliamo e dobbiamo condividere. Per questo riteniamo urgente costruire un confronto pubblico sulle proposte nostre e di altri soggetti, coinvolgendo i rappresentanti politico-istituzionali che si impegnano ad ascoltare e recepire, a condividerne l’attuazione. Senza rinunciare a praticare il conflitto.

Dobbiamo cambiare gli occhi e il cuorcon cui guardare alla nostra vita, alla società e al mondo.
La cura del vivere è il punto di vista da cui partire per costruire una società nuova.

Le donne e le associazioni dell’Assemblea della Magnolia